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ORATORIO DON BOSCO - San Donà di Piave

Tradizioni da riscoprire nei ricordi di Domenico Venier

del 23 marzo 2019

Fotogrammi quaresimali da consegnare ai ragazzi di oggi

 

Ha ancora senso recuperare le tradizioni e consegnare ai ragazzi scorci di un mondo estraneo? 

Certamente sì, non fosse altro che per nutrire la loro fantasia… Con la sola avvertenza, forse, di non portare il passato come un peso, ma di trasferirlo nell'oggi come una raccolta di immagini, di suoni, di emozioni in grado di conservarne lo spirito. E’ quanto abbiamo tentato di fare presentando questo breve racconto, tratto dalla biografia del salesiano Domenico Venier.

In questo testo tutto sembra animarsi e prendere colore, restituendo frammenti di vita carichi della  vivace creatività dei ragazzi d’un tempo; scenari di campagna impregnati di quel profondo senso religioso che riscopriamo, quasi inconsciamente, dentro di noi. Buona lettura!

 

“ La Settimana Santa iniziava con le Quarant’ore di adorazione (...) Nei giorni che seguivano le campane tacevano, le immagini degli altari erano velate, l’organo non accompagnava più i canti. Nelle funzioni serali del mercoledì, del giovedì e del venerdì si cantavano le Profezie. Inni e salmi erano recitati in latino, con chissà quanti e quali distorsioni di parole, ma i nostri contadini cantavano inconsapevoli dello scempio!
In quelle sere era piazzato un candelabro a forma di triangolo. Alla fine di ogni salmo, il sagrestano spegneva una candela, alternativamente a destra e a sinistra. Quando l’ultima candela, posta al vertice del triangolo, veniva spenta la chiesa rimaneva completamente al buio. 

Era “l’ora delle tenebre”, cioè l’ora in cui i persecutori di Gesù, dopo il bacio di Giuda, stavano per mettere le mani sulla loro Vittima. A questo punto i ragazzini, che durante tutta la celebrazione si erano annoiati per l’ascolto di quei salmi, si scatenavano, impersonando, senza saperlo, la perfidia sacrilega dei Giudei. 

Gli strumenti per far memoria dell’avvenimento dovevano essere tre. Il primo era il Greòn”, che nei giorni della Passione, era piazzato nella cella campanaria. Il suo ruolo era quello di sostituire il suono delle campane, momentaneamente tacitate, per segnalare ai fedeli l’inizio delle funzioni. Il greòn era di dimensioni notevoli, poiché si poteva udire quasi fino ai limiti della Parrocchia. 

Il secondo strumento era la Batarela” (batterella). Questa doveva sostituire il campanello (anche quello momentaneamente tacitato per ragioni liturgiche) per segnalare i momenti culminanti della celebrazione. La batarèla era costituita da una tavoletta di legno alla cui estremità aveva un’impugnatura. Su ognuna delle due facce si allineava una mezza dozzina di maniglie di ferro, articolate nei loro punti di fissaggio, in modo tale che al movimento semi rotatorio, alternato, dell’operatore, battessero sulla tavoletta. Lascio immaginare al lettore il tipo di suono che ne usciva. Ricordo che faceva trasalire chiunque. Questi due strumenti erano ufficialmente contemplati dall’organizzazione liturgica. 

Il terzo forse lo era in origine, ma visto l’uso che ne veniva fatto, aveva finito per essere a mala pena tollerato dalle autorità ecclesiastiche. La Gréa era un pezzo di legno da cui veniva asportata la parte centrale. All’estremità delle due ali rimaste, si praticava un foro nel quale s’infilava una rotella dentata e un bastoncino che fungeva da manico. L’operatore, tenendo saldamente il manico in mano, descriveva velocemente nell’aria una serie di cerchi. Ne usciva un suono petulante, evocante il canto di una raganella. 

Non erano pochi i ragazzi intraprendenti che si cimentavano in simili costruzioni. Avvicinandosi l’ora delle Profezie, i suoni delle grée, dalle tonalità più gravi a quelle più acute, s’incrociavano dai quattro punti cardinali del paese, ma entrando in chiesa venivano nascosti fino all’Ora delle tenebre.
Appena spenta l’ultima candela, si scatenava il finimondo. Non solo le grée si mettevano a gracchiare contemporaneamente, ma chi non ce l’aveva s’ingegnava ad accrescere il caos sollevando i banchi e facendoli sbattere per terra, o battendo sugli stessi con i sassi portati intenzionalmente dall’esterno.
Il tumulto durava poco. La voce imperiosa di don Bacchetti ingiungeva al sagrestano di accendere le luci, e la gazzarra finiva. Tuttavia, qualcuno di questi discoli, che si era inavvertitamente collocato vicino a qualche Cappato, aveva già saggiato in testa le dure nocche di questi tutori dell’ordine.

Il coinvolgimento emotivo dei fedeli raggiungeva il colmo durante la Passione del Venerdì Santo. Il pomeriggio era tutto un fermento di preparativi: scopare la strada, pulire i cortili, preparare degli altari, rivestirli di una tovaglia, piazzarvi una statua del Sacro Cuore o un quadro della Madonna Addolorata, dei ceri accesi, dei vasi di fiori. Le finestre che davano sulla strada del percorso venivano addobbate con lenzuoli o drappi, immagini sacre e lumini, tanti lumini.
Ad aprire il corteo, per tradizione consolidata, era Cencio Capon. Egli rappresentava Gesù. Rivestito di un camice bianco, a piedi nudi, portava una grande croce, che non doveva pesare molto, ma che teneva sulla spalla, piegato in avanti, ostentando un grande sforzo. Il percorso terminava in una minuscola chiesa posta su un rialzo di terra, che faceva pensare al Golgota. Il posto era abitualmente deserto, non esisteva nessuna illuminazione pubblica, ma la luna piena c’era sempre, la luna di marzo, e rischiarava, con la sua luce tenue, le donne col capo coperto che cantavano gli inni della Passione. Non ci voleva un grande sforzo d’immaginazione per vedere in esse le donne di Gerusalemme, che piangevano sulla sorte di Gesù. 

Il sabato pareva un giorno vuoto. La Quaresima era finita, ma non era ancora la Festa. La festa esplodeva il giorno dopo!".

 

Autore: Wally Perissinotto. Racconto tratto dal libro: “Ricordi di un ottantenne” di Domenico Venier, 2009

 

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